2030 e PNRR, l’Italia “non s’è desta”: lo stallo dell’innovazione digitale nel nostro Paese.

La fatidica data del 2030, anno che segnerà la fine della transizione digitale per i Paesi della UE, si sta velocemente avvicinando e per comprendere lo stato di salute dell’Italia, nel presentarsi a tale appuntamento, è utile sfogliare l’indice DESI (Digital Economy and Society Index) e relazionarlo, anno dopo anno, con i risultati raggiunti dalle altre nazioni.

Tale indicatore, introdotto nel 2014 dalla Commissione Europea, ha lo scopo di monitorare i progressi raggiunti in ambito digitale dai singoli Paesi della zona comunitaria, raccogliendo i dati di quattro aree chiave:

– Il primo settore, Il Capitale umano, misura il grado di competenza della popolazione in ambito digitale, così da essere in grado, o meno, di poterne trarre dei vantaggi sociali, diffusi e trasversali.
– Il secondo, la Connettività, probabilmente quello più importante, monitora la capacità infrastrutturale di un Paese e quindi la diffusione della banda larga, la copertura del territorio e il grado di adozione di Internet, sia per rete fissa che mobile.
L’Integrazione della tecnologia digitale, invece, indica quanto impattante siano le nuove tecnologie all’interno delle aziende, sia in chiave di semplificazione e ottimizzazione della qualità del lavoro, che in chiave di sostenibilità ambientale.

– I Servizi pubblici digitali, vengono misurati, in ultimo, per comprendere il grado di digitalizzazione raggiunto dalle Pubbliche Amministrazioni (PA), in prospettiva di un e-government atto a fornire alla cittadinanza servizi sempre più efficienti e sicuri. E seppure il nostro Stato, in tale indice, abbia continuato a scalare posizioni verso l’alto, anno dopo anno, procedendo di ben 5 posti nel 2021, dal venticinquesimo al ventesimo, e arrivando al diciottesimo nel report del 2022, tra i 27 Stati in lizza, è ancora molto lontano dal raggiungere gli standard digitali dei Paesi di alta classifica (Finlandia, Danimarca, Olanda, Svezia, Spagna). Diverse e pregresse sono le ragioni che ancora tengono l’Italia relegata nelle basse sfere di una classifica, che la vede senz’altro più vicina a nazioni, quali la Grecia, la Bulgaria e la Romania, fanalini di coda nel DESI.

Sicuramente molto è stato l’impegno di una classe dirigente pubblica nostrana che, con l’avvento della pandemia, ha dovuto obbligatoriamente ripensare, e con estrema fretta, un approccio digitale in grado di superare l’impasse emergenziale ma, purtroppo, ripulire in poco tempo l’acqua stagnante della poca, o meglio, nulla consapevolezza della rivoluzione tecnologica in atto, non è stato sufficiente per allineare il nostro Paese al target elevato degli Stati più virtuosi in senso digitale.

Ciò che è mancato negli anni, e che purtroppo ancora continua a mancare nelle alte sedi istituzionali, è una precisa mentalità digitale, con una visione a largo spettro, capace di far fare il grande salto ad un intero Stato e a tutta la sua popolazione. La corsa scomposta ad Internet, dovuta alle restrizioni sanitarie in Italia, ha mostrato sì la capacità di adattamento al Nuovo, ma anche tutte le falle di un sistema approssimativo che, giunto alle soglie del web di terza generazione, non ha probabilmente ancora compreso, né tantomeno assimilato, il grande cambiamento socio/economico globale iniziato agli albori degli anni ‘90 con il web 1.0. Mentre, infatti, i Paesi più attenti alla grande portata innovativa della digitalizzazione, hanno adottato, con un approccio sistemico e ben programmato negli anni, misure atte a favorire il cambiamento, coinvolgendo anche la popolazione, nel nostro Stato si è rimasti immobili, non investendo nelle infrastrutture critiche, essenziali oggi, per sostenere efficacemente, lungo tutto lo stivale, la rete Internet con l’imponente corollario dei suoi servizi né, al contempo, si è affrancata la cittadinanza, tramite una larga informazione/formazione, dall’inconsapevolezza con cui si è avvicinata allo strumento digitale.

Questo infatti, il gap più difficile da colmare rispetto alle moderne popolazioni europee, che stanno attraversando la transizione digitale con buona cognizione, sia teorica che pratica. Paesi come l’Estonia, hanno investito, ad esempio, ingenti risorse pubbliche per offrire alla propria cittadinanza, su larghissima scala, corsi di formazione digitale, su tematiche importanti che riguardano le tecnologie Disruptive Innovation e non solo (Blockchain, AI, IoT/IoE e Cybersecurity) estesi ai bambini della scuola primaria, fino ad investire la popolazione della terza età, così da renderla assolutamente autosufficiente, a differenza di quella italiana, nel gestire operazioni di home banking, oppure nel fare acquisti online o, ancora, nell’accedere ai servizi telematici della PA. Il capillare impegno divulgativo promosso nel piccolo Stato dell’est, ha fatto sì, assieme alla parallela implementazione della connettività, che l’intera PA sia oggi già ottimamente digitalizzata e che il settore dell’istruzione, rispetto al nostro ancora fermo alla riforma Gentile, sia stato il volano per uno Stato anticipatore dei tempi e della rivoluzione digitale in atto.

Altre nazioni hanno ben compreso l’importanza di rendere l’istruzione scolastica il più aderente possibile alle esigenze contemporanee, dettate dal veloce cambiamento ma, ancora una volta, non il nostro Paese in cui una vera formazione tecnologica non compare nei programmi della scuola dell’obbligo. Eppure, i danni di un utilizzo superficiale ed erroneo degli strumenti digitali, specie da parte delle giovani generazioni, sono sotto gli occhi di tutti e tentare di apporvi un rimedio tardivo, è di certo molto meno risolutivo rispetto ad una vera e propria educazione digitale, che passi sia attraverso un’accezione antropologica che prettamente tecnologica. Questo ingiustificabile ritardo, penalizza non solo nel presente, ma anche e soprattutto per l’avvenire l’Italia, che non potendo essere competitiva in campo tecnologico, non potrà più esserlo anche economicamente, posto che l’economia tutta, si è trasposta nel digitale.

La corsa al 2030, almeno dalla pandemia in poi, avrebbe dovuto svolgersi in modo programmatico e con una ben definita progettualità ma, di governo in governo, tra i soliti balletti di poltrone, poco o nulla sembra cambiato, perché anzi, come la tela di Penepole, quel che è stato pianificato da uno, viene annullato dall’altro. E non solo, molti, troppi, gli errori da parte di chi dovrebbe guidare la transizione, generati da una mentalità ancora analogica applicata alla digitalizzazione e dovuti alla mancanza, nella sala dei bottoni, di professionisti altamente competenti e specializzati nelle nuove tecnologie. Non che non ve ne siano nel nostro Paese, solo che, per una vecchia, brutta abitudine tutta italiana, la meritocrazia (termine sconosciuto nel contesto Italiano) deve ancora cedere il posto al clientelismo.

Ciò causerà, a mio avviso, un ulteriore incremento di fuga di cervelli, anche in ambito digitale, che all’estero troveranno modo e sedi in cui poter apportare i benefici delle loro ricerche e delle loro skills, mentre in Italia si tenterà ancora di capire se procedere o meno con la validazione dello SPID e della CIE oppure mettersi in linea con l’Identità Comune Digitale (https://lnkd.in/eFz7dHKM), che entrerà presto in vigore in tutta la UE. Anche perché in Italia abbiamo un grosso problema di approccio alle nuove tecnologie dove qualcosa che rompe la quotidianità e va a migliorare il nostro benessere di vita, viene visto come un problema, facendo allontanare dalle istituzioni, ancora una volta le nuove generazioni predisposte a questo mondo.

Non c’è davvero più tempo e anche l’essenziale risorsa dei 221,1 miliardi di Euro del PNRR, assegnati dall’Europa all’Italia per la digitalizzazione e innovazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale, fin qui sembra essere stata gravemente sprecata, posto che dei 55 obiettivi prefissi per fine 2022, solo 21 sono stati ultimati per via di una farraginosa e obsoleta burocrazia, oltreché per l’inflazione dovuta alla guerra russo/ucraina, la qual cosa come diretta conseguenza, reca il ritardo dell’invio della terza rata europea, nonché la paralisi del nostro Paese che, invece di spiccare il volo verso il buon futuro assieme ai grandi stati europei, resta a terra e senza direzione.

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