L’utilizzo dei permessi sindacali ex legge n. 104 del 1992 e il controllo svolto, su richiesta del datore di lavoro, da una agenzia investigativa. Il vaglio della conformità alla norma sulla protezione dei dati in un recente arresto della Cassazione.

Il caso

L’utilizzo di permessi sindacali, ex legge n. 104 del 1992 da parte di un dipendente aveva portato sia il giudice di prime cure che la Corte d’Appello, a conformare la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro per improprio utilizzo dei permessi.

Il soccombente ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte di Appello con due motivi, di cui in questa sede per ragioni di stretto interesse del lettore si riporta solo il primo, riguardante la presunta violazione degli artt. 2119 c.c. e 18 Statuto dei Lavoratori (di seguito, “SL”) in relazione agli articoli 2, 3, 4 SL, all’art. 160, comma 6 Codice della Privacy e artt. 2702 c.c. e 115 e 245 c.p.c..

La sentenza della Cassazione

La Corte Suprema di Cassazione, con Ordinanza n. 2157/2025, pubblicata in data 30 gennaio 2025, ha giudicato il ricorso infondato e rispetto al primo motivo, ha dichiarato che esso non può trovare accoglimento in quanto si lamenta la violazione, da parte dei giudici di merito, di principi enunciati che riguardano non la fattispecie in esame bensì l’ipotesi di controllo effettuato a mezzo di strumenti tecnologici, in relazione all’applicabilità dell’art. 4 SL novellato. Ad avviso della Corte tale disposizione non opera al caso concreto in quanto dalla sentenza impugnata risulta solo che il controllo è stato effettuato per il tramite di un’agenzia investigativa.

Art. 4. Impianti audiovisivi) 

1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.

2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

La sentenza del giudice di appello si incardina nel solco di una consolidata giurisprudenza della Cassazione secondo cui, fermo restando che il controllo di terzi, sia quello di guardie particolari giurate così come quello di addetti di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, tuttavia le medesime pronunce affermano reiteratamente che il controllo delle agenzie investigative può avere ad oggetto il compimento di “atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale”[1]

Affermano, inoltre, gli ermellini che è costantemente ritenuto legittimo il controllo tramite investigatori che non abbia ad oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa ma sia finalizzato a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, come nel caso di controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo dei permessi ex legge n. 104 del 1992[2];

Viene, altresì, rilevato come non sia adeguatamente specificato in quale modo il contestato controllo investigativo avrebbe inciso, con modalità non proporzionate rispetto al fine, sulla dignità e sulla riservatezza del lavoratore.

In una precedente ordinanza, la n. 30079 del 21 novembre 2024, la Cassazione ha avuto modo di puntualizzare come, si giustifica l’intervento in questione “per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione”[3].

Come noto, più recentemente, questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione di rilievo nomofilattico circa la compatibilità dei c.d. “controlli difensivi” con la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori recata dall’art. 23 del D.Lgs. n. 151 del 2015 e successive integrazioni, ha affermato[4]  i seguenti principi: occorre distinguere, anche per comodità di sintesi verbale, “tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti e ‘controlli difensivi’ in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro”.

Questi ultimi “controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore”, si situano, ancora oggi, “all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4”; per non avere ad oggetto una “attività -in senso tecnico- del lavoratore”, il controllo “difensivo in senso stretto” deve essere “mirato” ed “attuato ex post”, ossia a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto, perché solo a partire “da quel momento” il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili; anche “in presenza di un sospetto di attività illecita”, occorrerà, nell’osservanza della disciplina a tutela della riservatezza del lavoratore, e segnatamente dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, “assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto”.


[1] Ex plurimis, Cass. n. 9167 del 2023.

[2] v. Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 15094 del 2018; Cass. n. 4670 del 2019; da ultimo, Cass. n. 6468 del 2024.

[3] v. Cass. n. 3590 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017.

[4] Cfr. Cass. n. 25732 del 2021; successiva conf. Cass. n. 34092 del 2021.

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Dott. Prof.( a.c.) Davide De Luca - Compliance & Cybersecurity Advisor - LinkedIn

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