Le registrazioni tra presenti, che avvengano all’insaputa dei presenti ad una conversazione sono legittime ed utilizzabili per fare valere un proprio diritto di difesa.
Il caso
Un medico che aveva registrato una conversazione all’insaputa dei presenti alla stessa fu sanzionata dalla commissione Medica di Disciplina dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di appartenenza, per avere violato il Codice dentologico dei Medici, art. 58[1], per avere posto in essere un comportamento scorretto, in violazione del dovere di rispetto reciproco e fiducia nei confronti di un collega. Tale fattispecie si sarebbe verificata, per l’appunto, attraverso una registrazione senza autorizzazione di una conversazione privata, intercorsa con il collega in ambiente e orario di lavoro.
Contro questa decisione la dottoressa propose ricorso, ex art. 5 d.lgs. 233/1946, innanzi alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, che però lo respinse.
Avverso questa decisione la dottoressa propose ricorso per cassazione.
La decisione della Cassazione
Per quanto di stretto interesse in questa sede, la Cassazione con Ordinanza 5844 del 5 marzo 2025 nel riconoscere l’ammissibilità del ricorso ha stabilito quanto di seguito riportato.
La censura in esame è stata formulata in riferimento alla violazione di due norme imperative, l’art. 51 cod. pen. E l’art. 24 del d.lgs. 196/2003 (Codice della privacy), perché nella motivazione del provvedimento impugnato la condotta sanzionata è stata specificamente individuata come deontologicamente illecita in riferimento al diritto alla riservatezza, la cui violazione si sarebbe tradotta nella violazione delle norme di correttezza tra colleghi.
Art. 51 cod. pen. Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere.
L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità.Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale [c.p. 357] che ha dato l’ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo.Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine
Tuttavia, nell’art. 24 invocato la violazione del diritto alla riservatezza risulta specificamente scriminata dalla sussistenza di una particolare ipotesi, il contrapposto esercizio del diritto di difesa (e lo risulta tutt’oggi, in riferimento al d.lgs. 101/2018, recante l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento UE 2016/679, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati).
L’articolo risulta essere applicazione specifica del principio generale sancito nell’art. 51 cod. pen., secondo cui l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.
Pertanto, ad avviso degli ermellini, la commissione centrale, nell’esaminare le ragioni scriminanti addotte dall’incolpata, non si è conformata a un principio di diritto consacrato nella norma dell’art. 24 del Codice della privacy; oltre che del principio generale di cui all’art. 51 cod. pen., secondo cui non è illecita la violazione del diritto alla riservatezza, cioè la condotta di registrazione di una conversazione tra presenti in mancanza dell’altrui consenso, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa in giudizio.
In particolare la scriminante opera a prescindere dalla esatta coincidenza soggettiva tra i conversanti e le parti processuali, purchè l’utilizzazione di tale registrazione avvenga solo in funzione del perseguimento di tale finalità e per il periodo di tempo strettamente necessario.
La Cassazione, sull’argomento, già in passato[2] aveva esplicitamente affermato che “il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso; non a caso, nel codice di procedura penale, il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Costituzione sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento.
[1] Art. 58 del codice deontologico, vers. del 15 dicembre 2006, prevedeva che “il rapporto tra medici deve ispirarsi ai principi di corretta solidarietà, di reciproco rispetto e di considerazione della attività professionale di ognuno”.
[2] Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, ordinanza n. 24797/2024, del 16 settembre 2024. Nel caso di specie, alcuni dipendenti avevano – ciascuno nell’ambito del proprio contenzioso avente ad oggetto questioni inerenti alle loro posizioni lavorative – depositato in giudizio la registrazione di una conversazione avvenuta diversi anni prima tra un loro collega ed alcuni dirigenti della società datrice di lavoro. Registrazione che era stata effettuata all’insaputa, e senza il consenso, dei partecipanti. I dirigenti coinvolti proponevano reclamo all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali che respingeva la richiesta constatando che la registrazione, e quindi la connessa attività di trattamento dei dati personali, era stata effettuata per finalità connesse alla contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. A questo punto, i dirigenti si rivolgevano al giudice ordinario. Oltre alla consolidata giurisprudenza nazionale formatasi sul tema, la Cassazione richiama anche la Corte di giustizia (UE) che, con sentenza del 2 marzo 2023, C-268/21 – Norra Stockholm Bygg AB contro Per Nycander AB, chiariva che “qualora dati personali di terzi vengano utilizzati in un giudizio è il giudice nazionale che deve ponderare, con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità, gli interessi in gioco e che “tale valutazione può, se del caso, indurlo ad autorizzare la divulgazione completa o parziale alla controparte dei dati personali che gli sono stati così comunicati, qualora ritenga che una siffatta divulgazione non ecceda quanto necessario al fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dall’articolo 47 della Carta“. E, ricorda la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, gli “artt. 17 e 21 del GDPR rendono palese che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali”.